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Trento, 4 febbraio 2011
Scalfaro, su di lui cattiverie gratuite
di Marco Boato
da l’Adige di sabato 4 febbraio 2011

La morte del presidente emerito dellaRepubblica Oscar Luigi Scalfaro ha lasciato una scia di elogi incondizionati, da parte di esponenti del centro-sinistra, del Terzo polo e da parte delle massime autorità istituzionali, ma anche un cascame di cattiverie gratuite da parte di alcuni esponenti del Pdl e della Lega. Persino al suo funerale è stata ostentatamente visibile l’assenza di esponenti del centro-destra, fatta eccezione per Gianni Letta, il sindaco Alemanno e Beppe Pisanu.

Personalmente ho conosciuto molto bene Oscar Luigi Scalfaro, non solo nei sette anni della sua tormentata presidenza della Repubblica, ma anche prima e dopo. Ma la storia di Scalfaro è molto più lunga, come ha giustamente ricordato Pierangelo Giovanetti, e attraversa tutto il dopoguerra italiano, nelle fasi storiche più diverse. Credo debba essere possibile per tutti riflettere su questo suo lunghissimo percorso «sine ira ac studio», con obiettività e senza risentimenti.

Nato appena finita la prima guerra mondiale, entrato in magistratura ancora negli ultimi anni del fascismo, nell’immediato secondo dopoguerra si trovò a fare il pubblico ministero chiedendo (e ottenendo) la condanna a morte di esponenti fascisti, poco prima che la pena capitale scomparisse definitivamente dal nostro ordinamento.

Pochissimi anni dopo, alla Assemblea Costituente, tuttavia Scalfaro votò con convinzione l’abolizione della pena di morte, prevista dall’articolo 27 della Costituzione. In Parlamento e nel suo partito, la Dc, Scalfaro appartenne alla componente «di destra» che si ispirava a Mario Scelba: una corrente antifascista, ma rigidamente «centrista», contraria a qualsiasi apertura a sinistra (prima ai socialisti di Nenni negli anni ’60 e poi, con l’unità nazionale, anche ai comunisti di Berlinguer negli anni ’70) che invece la Dc di Amintore Fanfani, prima, e di Aldo Moro, poi, cercò di perseguire di fronte ai processi di cambiamento tumultuoso della società italiana.

Dunque, quest’uomo rigidamente conservatore, avversario dichiarato di Aldo Moro nella Dc, si è poi trovato, da presidente della Repubblica, ad avere tensioni crescenti col centro-destra di Berlusconi, emerso dopo il referendum del 18 aprile 1993, la nuova legge elettorale Mattarella e le elezioni politiche del 1994. Ma la caduta dopo pochi mesi del primo Governo Berlusconi non fu affatto dovuta a Scalfaro, bensì al «tradimento» della Lega, che a Berlusconi tolse l’appoggio. Non ci fu nessun «ribaltone» e men che meno nessun «golpe» voluto da Scalfaro, al quale fu lo stesso Berlusconi, ormai privo di maggioranza, a indicare il ministro del tesoro Lamberto Dini come suo successore. Semmai, il vero problema istituzionale era emerso prima, quando all’inizio del 1994 il presidente Scalfaro sciolse anticipatamente il Parlamento dopo meno di due anni di legislatura, nonostante il Governo Ciampi (succeduto al Governo Amato) avesse ancora una maggioranza in Parlamento. Ma questo scioglimento delle Camere - nel clima torrido di Tangentopoli - fu pienamente avallato dai presidenti del Senato Spadolini e della Camera Napolitano.

Scalfaro quella volta fu quasi soltanto il «notaio» di questa volontà convergente, ma incauta, visti gli esiti successivi.

Per quanto riguarda la sua elezione a Capo dello Stato, appena un mese dopo la sua elezione a Presidente della Camera (facevo parte del suo Ufficio di presidenza), è vero che il principale promotore di questa scelta fu allora Marco Pannella, ma sostenuto da una assemblea informale e «trasversale» di decine di parlamentari, di cui facevo parte anch’io. Mentre era ancora candidato ufficiale Arnaldo Forlani, registrammo un voto in più dei presenti nelle urne. Andai io alla sera da Scalfaro a dirgli che chiedevamo la segretezza del voto e passammo quasi l’intera notte, lui e io, nell’aula vuota di Montecitorio con i falegnami che costruirono subito, su suo ordine, la prima «cabina di voto». Oggi è la regola, ma fino allora, dal 1948 al 1992, la segretezza del voto non era mai stata davvero garantita. Una piccola «riforma istituzionale» di cui i manuali di diritto pubblico non parlano, ma che creò, subito dopo la strage di Capaci, le condizioni per l’elezione di Scalfaro, cadute le contrapposte candidature di Forlani e Andreotti e ormai nell’impossibilità di controllo del voto da parte dei partiti e dei gruppi parlamentari.

Credo che anche la vicenda dei «fondi neri» del Sisde vada sdrammatizzata e storicizzata. Quei fondi c’erano e - a parte ciò che ci poteva essere di illecito e che in parte emerse della gestione «allegra» dei responsabili di allora - è vero che veniva fornita una certa cifra riservata al Ministro dell’interno in carica, senza alcuna rendicontazione. Credo che il suo predecessore, Francesco Cossiga, abbia detto a un certo punto la verità: quei fondi andavano per lo più a conventi di suore per piccole opere interne, che Scalfaro aiutava in questo modo. Il suo drammatico «Io non ci sto» a reti televisive unificate servì a stroncare una manovra che cercava di destabilizzarlo. Da ultimo il ruolo di Scalfaro a difesa della Costituzione, che è stato anche il motivo principale di impegno negli ultimi anni della sua vita soprattutto con gli studenti.

Nessuno ha ricordato in questi giorni che fu proprio lui, appena eletto nel 1992, nel discorso di insediamento, ad  auspicare una Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Nacque dunque sotto il suo impulso riformatore la prima Bicamerale De Mita-Iotti, che però cessò anticipatamente a causa della fine traumatica della legislatura. Ma quando nel 1997, all’epoca del primo Governo Prodi, venne istituita la seconda Bicamerale, presieduta da D’Alema, l’atteggiamento di Scalfaro cambiò, soprattutto in relazione ai temi della giustizia («sistema delle garanzie»), di cui ero io il relatore. E non c’è dubbio che la sua posizione critica, espressa a pieno sostegno della contrapposizione da parte della Anm nel congresso del gennaio 1998, contribuì fortemente al fallimento dell’intero disegno riformatore, ripreso soltanto in piccola parte nell’importante successiva (1999) riforma dell’articolo 111 della Costituzione in materia di «giusto processo».

Che quest’uomo, nell’arco di 66 anni (dal 1946 in poi) di impegno politico e istituzionale, abbia avuto posizioni diverse, abbia anche commesso degli errori, non può togliere nulla al prestigio che si è conquistato, soprattutto di fronte alle giovani generazioni, e al ruolo che sicuramente gli verrà attribuito nella storia dell’Italia repubblicana.

Marco Boato
Già deputato e senatore della Repubblica per più legislature

 

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